THE SCORPION’S DARK DANCE
Alfredo de Palchi
Spiegaci  l’importanza che Villon e Rimbaud hanno avuto nella tua vita e nella tua poesia.
  
Li  ho scoperti alla fine degli anni quaranta del novecento,  durante la mia prigionia politica.
    Il  mio primo incontro con François Villon avvenne quando, senza sapere nulla della  sua esistenza, trovai nella biblioteca della prigione un libro, intitolato Il merlo sulla forca, che  attirò la mia attenzione.
    Il  libro narra di un criminale, forse un assassino, che deve essere impiccato.  Avevo appena 18 anni, e ne fui  talmente affascinato e incuriosito da desiderare  più volte la possibilità di incontrare il protagonista del libro.
    Il  racconto romanzato di questa vita particolare stuzzicò la mia curiosità fino a  farmi scoprire che il “merlo” era esistito realmente e il suo nome era François  Villon.
    Essendo  in quel momento anche io imprigionato dietro a delle sbarre, volevo sapere se  Villon, conoscendo la sua drastica fine,   provava e sentiva le mie stesse emozioni. 
    Accadde  che un prigioniero politico mio amico, Ennio Contini, viste le mie continue  domande, mi diede alcune informazioni su Villon e mi aiutò a trovare la  traduzione in italiano di Le grand  testament.
    Immediatamente  trovai un giovane uomo (aveva appena trent’anni quando lo vidi sulla forca)  leggere con sarcasmo e divertimento,  direttamente al sottoscritto, come se stesse infliggendo punizioni e elargendo  ricompense ai suoi nemici e amici.
    Allo  stesso tempo iniziai ad imparare il francese come autodidatta, non ricordo  precisamente ma devo aver trovato un paio di libri di grammatica; ogni giorno imparavo  una nuova parola che pronunciavo con un forte accento sull’ultima sillaba,  pensando fosse il modo in cui i francesi pronunciavano le parole.
    Pensavo  veramente di imparare così la lingua parlata, fino a quando anni dopo, con mio  grande stupore, il mio francese in Francia lasciava le persone a bocca aperta.  Non capivano una sola parola di quello che dicevo e io non capivo loro, divenne  così divertente che ne ridevamo spesso insieme fino a quando, tre o quattro  mesi dopo, imparai a pronunciare le parole con un discreto accento.
    A  Parigi, nel 1951, inseguii  Villon nelle  librerie del  Quartiere Latino e alla fine  lo trovai che mi stava aspettando, in tre versioni dello stesso lavoro che con  orgoglio posseggo ancora oggi: Villon (Oeuvres),  Illustrations de Dubout, Gilbert Jeune Librairie d’Amateurs, 1948; Le grand testament de François Villon, Illustré et grave par Schem, aux Dépens  de l’Artiste, 1948.
    A  proposito: tutte e sei le raccolte di poesie che posseggo hanno un epitaffio di  Villon.
Sentii  parlare per la prima volta di Arthur Rimbaud nello stesso periodo di Villon, ma  incontrai per davvero la sua poesia solo nel 1951 a Parigi. 
    Mi  era stato detto che aveva un carattere selvaggio, come un adolescente arrogante  ed esigente il cui genio fu scoperto da Paul Verlaine il quale, durante gli  anni dell’assenza di Arthur dal mondo letterario, non si dimenticò mai  dell’amico rimanendogli sempre accanto. 
    Forse  gli scritti di Arthur si sarebbero sollevati dal suo corpo cancrenoso, ma alla  fine il mondo deve ogni cosa a Verlaine.
    In  ogni modo, quando intervistai Rimbaud leggendo i suoi lavori nella Galerie de la Pléiade, decisi che Arthur  era il mio poeta. 
    Lui  smise di scrivere all’età in cui io iniziai, selvaggio, arrogante e duro.
    Questi  due uomini molto diversi: Villon, poeta illuminato, realistico e ferocemente  sarcastico, che concluse l’età medievale iniziando l’epoca della letteratura  moderna, e Rimbaud, l’ultimo giovane che riuscì veramente a rivoluzionare,  dalla sua morte, il mondo della poesia con il suo ancora insuperabile lirismo,  mi insegnarono ad essere il poeta che sono senza per questo indurmi  a copiare i loro scritti o seguire i loro  passi permeati dalla violenza fisica.
    Li  amo però così come sono stati e, ebbene si, li amo a dispetto dei  “crimini”  che possono aver commesso.  Sono loro infatti ad avermi  insegnato a  comportarmi moralmente, spiritualmente e fisicamente seguendo i miei valori,  grazie ai quali ho ottenuto quello che una larga parte degli scrittori dice,  senza convinzione, di aver raggiunto. Scrittori che sono e sempre saranno dei  codardi venduti.
    François  e Arthur hanno vissuto senza codardia e senza mai vendersi a nessuno.  
Descrivici il tuo background come poeta. A che età hai iniziato a scrivere poesie?
In  una piccola città di provincia del Veneto, la campagna con i suoi campi, alberi  e ruscelli erano la poesia non scritta; successivamente ci fu l’incontro con le  prime  poesie semplici e fresche di  Angelo Silvio Novaro, un autore che ricordo ancora per la sua abilità nel  conservare nella mia mente quella freschezza.
    Poi  ci fu mio nonno, un anarchico che ogni notte inventava, per le mie giovani  orecchie, la sua poesia ispirata a una fiabesca vita reale.
    E  fu così che arrivai a 16 anni, lontano dalla poesia di autori sconosciuti, che  nella mia mente credevo bellissimi; non li ho mai immaginati brutti o che  potessero andare al gabinetto come gli altri comuni mortali.
    Alla  fine mi scontrai con la verità, ma insieme a mio nonno Carlo, François (so che  era bellissimo) e Arthur (guardate le sue foto) per me sono magnifici, i  migliori sia tra i vivi che tra i morti.  
    Subito  dopo questo brutto shock, un altro tipo di bruttezza mi attaccò fisicamente: un  interrogatorio dopo l’altro, seguiti dalle torture, lasciarono delle ferite sul  mio corpo martoriato, che scomparvero solo dopo due anni.
    Avevo  appena 18 anni, ero solo un pacifico ammiratore del mio pacifico nonno; la  bruttezza odiava il bellissimo anarchico che ero e che sono, e spinto dal mio  desiderio interiore incisi i miei primi versi sul muro della cella; il mio  sospetto è che quei versi furono l’inizio di ciò che poi è diventata La buia danza di scorpione/The scorpion’s last dance, che ho  iniziato subito dopo il compimento dei miei vent’anni, nel Dicembre 1946.
    Sono  così riuscito a trovare subito la mia voce più intima, senza ancora conoscere i  lavori di Villon e Rimbaud e degli autori italiani miei contemporanei.
    Dal  1947 al 1951 ho inconsciamente scritto varie forme di poesia con stili  differenti le quali sorpresero i poeti che ho menzionato prima: amici e maestri  che confermarono il mio talento di poeta. 
    Nella  mia ignoranza ero inconsapevole di ciò che stavo realmente creando, mi ci  vollero anni per comprendere da dove il mio stile scaturisse, ma alla fine  scoprii che era il soggetto dei poemi a dettare la forma e lo stile della mia  poesia: nel bene e nel male, non posso saperlo.  
Te la senti di descriverci la tua esperienza di prigioniero politico durante gli anni quaranta e cinquanta del novecento?
Il  pubblico americano sa che c’è stata una Seconda Guerra Mondiale e che l’America  vinse, ma sfortunatamente non sa che, dal Settembre 1943 all’Aprile 1945,  l’Italia fu in guerra sia contro la Germania che contro l’America.
    L’Italia  era sotto l’occupazione tedesca e nello stesso tempo stava combattendo una  guerra civile.
    Gli  Americani conoscono questi fatti? No, neanche i politici li conoscono,  rimangono in un’ imbarazzante ignoranza. Ho provato varie volte a spiegare  questi tragici eventi al pubblico Americano, ma sempre con risultati molto  scarsi.
    Nel  modo in cui la vedo, si dovrebbe poter capire molto facilmente che la mia  giovinezza fu schiacciata da guerre fatte da assassini,  presenti in entrambi gli schieramenti;  purtroppo non è così ed è per questo che alla fine, per evitare malintesi,  decisi, già molto tempo fa, di rinunciare a qualsiasi tipo di spiegazione  storica.  
Si dice che tu abbia aiutato ad introdurre, negli Stati Uniti, poeti italiani molto importanti come Quasimodo, Ungaretti e Montale: puoi fare un commento riguardo a queste voci?
Queste  voci sono esagerate, Salvatore Quasimodo e Giuseppe Ungaretti furono introdotti  a pochi lettori Americani con due libri (uno per ogni autore) tradotti da Allen  Mandelbaum, nello stesso periodo in cui, alla fine degli anni cinquanta, stavo  aiutando Sonia Raiziss a tradurre alcune poesie di Montale per una possibile  pubblicazione su delle riviste.
    Infatti,  alcune apparsero in Poetry, 1958, e  lo stesso anno testi di altri poeti, tra cui anche Montale, apparvero su una pubblicazione  dell'Atlantic Monthly,  totalmente dedicata alla cultura italiana, e in seguito su altre piccole  riviste letterarie.
    E’  comunque vero che Sonia, con il mio aiuto, ha tradotto alcune poesie di  Quasimodo e Ungaretti e che noi, come pionieri,  abbiamo posto le basi per coloro che sono  venuti e hanno tradotto testi di poesia per la prima volta apparsi nelle  traduzioni di Sonia Raiziss.   
Il cinema Italiano (penso a Michelangelo Antonioni e a De Sica) ti è mai interessato o ha influenzato la tua poesia?
Impossibile,  devi sapere che quando questi due registi, in particolare De Sica, e altri  produttori neorealisti stavano girando i loro film, all’inizio disprezzati dal  pubblico e dai politicanti, guardavo il mondo dalle sbarre di una piccola cella  di una fortezza su un’isola del Golfo di Napoli.
    Mentre  stavo lavorando a La buia danza di  scorpione, per qualche strana ragione stavo anche componendo poesie con uno  stile cinetico.
Mi  è stato detto da un paio di critici miei ammiratori, che nessuno nel 1948  scriveva poesie come le mie e che nei primi anni sessanta, quindici anni dopo,  i cosiddetti avanguardisti iniziarono a pubblicare lavori che ricordavano il  mio stile.
    Un  lungo poema cinetico, diviso in 13 sezioni, apparve nella prima edizione di una  rivista ormai storica Questo e altro.
    La  novità è che gli avanguardisti facevano finta di non saperlo ed è così che, per  quanto io ami Antonioni, De Sica e altri, non sono per nulla in debito con  loro.
Puoi descriverci come il paesaggio italiano ha modellato i tuoi primi poemi?
Vedo  che hai fatto i compiti anche per quanto riguarda questa domanda.
    Sicuramente  starai pensando a La buia danza di  scorpione, dove c’è il paesaggio della mia infanzia.
    Anche  se ho avuto un’infanzia molto povera, non ero certo infelice perché avevo  l’amore di mia mamma, dei miei parenti e del mio gentile, tenero e coraggioso  nonno che ricoprì il ruolo di un padre che mancava.
    Ed  è così che, anche se qua e là ci sono sprazzi di violenza, la mia terra natia è  praticamente idilliaca, con quel bellissimo fiume, l’Adige, che come una  corrente sotterranea mi ha plasmato e torturato nella mia poesia.   
La guerra, dopo 60 anni, ha ancora un peso nella tua vita? E’ ancora presente nella tua poesia?
Assolutamente  no, se mi fossi fermato a scrivere della guerra avrei già smesso di creare 55  anni fa.
    Non  si può andare avanti a scrivere sempre dello stesso soggetto, non importa  quanto esso sia tragico.
    Infatti,  c’è un accenno alla guerra solo nei primi poemi, ma legato alla mia prigionia;  francamente considererei chiunque, incluso me stesso, un poeta limitato se ogni  suo libro contenesse lo stesso materiale e lo stesso stile col passare degli  anni.
    Se  leggi i miei libri puoi vedere che, piaccia o no, ognuno è diverso; ho letto  tanti bravi poeti che mi hanno portato all’esaurimento con i loro quindici  libri tutti uguali.
    Un  vero poeta dovrebbe sapere quando rinunciare, sarebbe meglio smettere di  scrivere dopo un lavoro originale, che sminuirlo pubblicando libri diversi solo  nel titolo.
    
E’ per te un processo difficile la scrittura in prosa?
Inizio  a sospettare che tu sia troppo furbo e sveglio. 
    Immagino  tu abbia letto i miei lavori e abbia intuito che io non sono uno scrittore di  prosa, o che comunque avrei qualche difficoltà.
    Le  difficoltà le ho perché mi considero un poeta nato, cinquant’anni fa provai a  scrivere delle storie brevi, ma smisi subito quando vidi che le storie, eccessivamente  autobiografiche, arrivavano troppo velocemente al finale.
    Tuttavia,  allo stesso tempo, stavo abbozzando scritti molto brevi che intitolai Memorie scheletriche/ Skeletal mamoirs le quali, in ottanta pagine a interlinea singola, raccontano i miei primi diciotto  anni di vita.
    Oltre  a questo, ho anche prodotto dei rozzi scritti sulla mia prigionia e gli anni a  Parigi. 
    L’intenzione  di questo ensemble è descrivere la  vita reale con flash essenziali, che arrivano fino ai miei trent’anni, senza  nessuna nota di sentimentalismo.
    Spero  di avere la possibilità di poterli completare, lavorando a questo progetto  subito dopo l’ultima uscita di Chelsea,  la rivista letteraria su cui ho lavorato nei cinquant’anni passati.  
Come vuoi che venga interpretata la tua poesia? Che eredità speri di lasciare ai posteri?
La  tua prima domanda è relativamente facile, ogni autore vorrebbe che il suo  lavoro venisse interpretato correttamente dai critici e dai lettori, purtroppo  però molto spesso accade esattamente il contrario.
    Io  non seguo i canoni standard (oltretutto non li conosco nemmeno, e se anche  molto tempo fa posso averli conosciuti, li ho comunque ignorati), la mia poesia  è ancora considerata dura e rigida, eccetto per alcuni che pensano sia di alta  qualità, significativa e originale.
    Ogni  libro è un’unità e in questa unità un critico/lettore può trovare più di un  singola interpretazione: scientifica, sessuale, sociale o spirituale.
    Adesso  François Villon ed Arthur Rimbaud  sono  riconosciuti da un largo numero di critici e lettori come dei grandi maestri,  questo accade solo perché sia François che Arthur sono ormai famosi e radicati  nel mondo della poesia; se invece fossero due poeti quasi sconosciuti, ti  assicuro che verrebbero sicuramente messi sulla croce.
    Loro  sono originariamente diversi, e così sono anch’io, originariamente diverso.
    Per  quanto riguarda l’eredità, non ci do molto peso, e comunque ho ancora davanti  quarant’anni  per pensarci!
    In  ogni modo, è futile per chiunque pensare a cosa lasciare in eredità di se  stessi, solo i mediocri, che includono sia i politici che il Presidente degli  Stati Uniti, si preoccupano dell’eredità. Cosa dire, solamente il tempo può  decidere.  
Ti consideri un poeta sperimentale o un poeta d’avanguardia?
Nessuno  dei due, non ho mai assunto questa o quell’etichetta. Rispetto, se necessario,  questo o quel movimento, ma non ho niente a che vedere ne con l’uno ne con  l’altro, viaggio da solo.
    Vorrei  tuttavia rispondere con un'altra domanda, pensi che Villon e Rimbaud si  preoccupavano della loro eredità ed erano del tutto consapevoli della loro  rivoluzione letteraria?  
Quanto differisce la reputazione che hai negli Stati Uniti, da quella che hai in Italia?
Non  posso vantarmi, la mia produzione in Italia è assai stimata da un gruppo molto  piccolo, ma in crescita, di critici ed ammiratori.
    Nel  mentre sto scrivendo questa intervista, mi hanno informato che  il libro Paradigma:  tutte le poesie 1947 – 2005 ha venduto 40 copie dalla sua pubblicazione  nella primavera del 2006.
    Questo  ti dà una misura della mia controversa reputazione, sono per caso deluso o  infuriato? No, conosco il mio valore. Non partecipo a quell’amalgama di  maldicenti che è il mondo provinciale della poesia italiana.
    Ricorda,  non ho mai chiesto un favore o un aiuto a nessuno, non ho mai proposto i miei  lavori a grandi o piccoli editori. Accadde invece che le mie poesie furono  richieste dagli editori per puro caso. Io sono un “caso” che verrà scoperto nei  prossimi quarant’anni. Negli Stati Uniti la situazione è ancora più nera: qui è  raro che un poeta straniero diventi conosciuto, i pochi che vengono tradotti in  inglese scompaiono senza lasciare tracce, senza neanche una recensione di cui  vantarsi. Da qualche parte scrissi: Io e  la mia arte non abbiamo fretta.  
Hai mai il desiderio di tornare a vivere nella tua patria?
Si,  mi piacerebbe vivere a Parigi: non è la mia patria, ma è lì che mi sento a  casa.
    Vado  a Parigi praticamente una volta all’anno, dopodiché sorvolo le Alpi e atterro a  Verona o a Venezia.
    Faccio  questo viaggio per un mese all’anno, più che altro per rimanere in contatto con  la mia lingua e con alcuni amici. Alla fine del mese ho bisogno di lasciare gli  stretti confini delle città italiane.
    Sfortunatamente  non posso partire e mia moglie e mia figlia, benché amino andare a Parigi e in  Italia, non hanno alcun desiderio di vivere in Europa per sempre.  
Hai qualche ultimo consiglio da dare ai giovani aspiranti poeti?
I  miei cinquant’anni di esperienza con Chelsea mi hanno messo in contatto con tante odiose “nullità”, quanto più erano  mediocri tanto più si lamentavano e pretendevano.
    Detto  democraticamente, a questi scrittori senza talento suggerisco di non continuare  a  scrivere: so che sanno quanto sia  inutile anche a loro perseverare, ma vogliono comunque raggiungere il sogno  americano.
    A  quelli invece che hanno talento, e quindi meritano attenzione, suggerisco di  lavorare sodo, senza fretta di pubblicare cose di cui più avanti potranno  pentirsi; noi non sappiamo che cosa fa grande un poeta, ma sappiamo che un poeta  serio lavora con disciplina e senza paura di eliminare drasticamente il  superfluo. Cos’è il superfluo?  Guarda  con distacco alle quindici raccolte monotone di un illustre poeta, poi nelle  tue, e lo capirai.  
Quali parole vuoi lasciare al mondo quando verrà la tua ora ?
Su  questa cosa ho un progetto molto serio, innanzitutto non voglio che il mio  corpo venga messo in mostra, inoltre non voglio nessun tipo di musica  “celestiale” come sottofondo.
    Voglio  invece dei pezzi di musica classica da me scelti, un allegro cocktail party e  al momento di entrare nell’inceneritore, la mia voce registrata, soffocata  dalle risate, che dice le seguenti parole: “Felice di avervi conosciuto, ma  adesso, addio.”
Sono estremamente serio a tale proposito.